IL VOLO
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Una parete: Cattedrale
di roccia edificata in mezzo al nulla.
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Una figura mitologica:
rappresentazione delle fughe; disperate.
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Un arrampicatore: lucidità
nell’accettare una perdita, consapevolezza che li finisce la sua vita. Scegliendone i termini.
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Una persona: il
ricordo.
L’effetto delle parole dipende dal momento in cui ti sono
rivolte
“La mitologia narra che
Dedalo, per fuggire dal labirinto, costruì delle ali con delle penne che
attaccò al proprio corpo, ed a quello del figlio Icaro, con la cera.
Nonostante l’avvertimento del padre, di non volare troppo alto, Icaro si fece
prendere dall'ebbrezza; salì talmente in alto verso il cielo che avvicinandosi
troppo al sole questi ne fuse ciò che sino a quel
momento gli permise la lotta contro la forza di gravità. Il volare. Il volo.
Anche oggi, come nel
passato, io non salirò verso il cielo utilizzando ali di cera, anzi è sin
troppo plateale il “salire verso il cielo”. Pur se il “salire” una montagna,
scalare una parete, è anche un po’ questo.
Oggi non salirò
neppure con il consueto, rassicurante, peso della corda, e nemmeno con quello
del materiale d’arrampicata appeso a vita –anzi di solito, è la vita a essere
appesa ad esso– moschettoni, rinvii e quant’altro. No, oggi sarò leggero e l’unico,
misero, peso sarà quella fastidiosa sensazione che ci prende nei momenti in cui
la sicurezza viene a mancare. Paura. Si è questo, è proprio questo che mi
spinge: la sensazione di vittoria contro il proprio Io.
Il Volo. Sto andando
verso il Volo finale, l’ultimo poiché dopo - dopo il volo intendo – non ci sarà
più nulla. Si sto andando incontro l’ultima salita, verso l’ultimo sole. Esso
continuerà a sorgere e tramontare, ma non più per me. Non pensate al gesto
schizofrenico di un uomo allucinato, non più in se. Sono perfettamente lucido e
determinato.
A tratti, salendo,
avvicinandomi alla parete, la mia parete - quella che più di tutte mi ha
regalato la possibilità di disegnarci su linee sognate – sorrido e penso alla
meticolosità con la quale ho sempre preparato ogni solitaria; la Via,
l’itinerario, la sequenza dei movimenti nei tratti più difficili e il ritorno.
Già, il ritorno.
Anche oggi voglio
evitare ogni errore, ogni possibile pericolo. Devo finire la Via, uscire nel
punto più alto, e poi? E poi cosa? Il nulla.
Mentre cammino, m’immagino
lassù, mi vedo pronto, nessuna esitazione, proteso alla volta del vuoto. Incontro
al Volo, sarà magnifico. Trecento metri mi separeranno da che egli finisca, si
concluda; che sensazione proverò?
Che cosa ha provato
Icaro, terrore? Certo lui non l’ha voluto ne cercato, non così. La mia è una
scelta e questo fa la differenza. Perché? Ho i miei motivi, non è un suicidio è
libertà, e non è un crimine contro la vita scegliere di morire, è una scelta di
vita.
Sono arrivato, mi
preparo e mi sento come un guerriero antico all’atto della vestizione. Non ho
però i colori di guerra, né nemici da sconfiggere. Io ho già lottato, non ho né
vinto e nemmeno perso, ho vissuto quello che volevo, forse non tutto, ma ho
vissuto godendo di questo dono. Non son stato solo, né mai mi ci son sentito.
Ho amato e sono stato amato. Ho dato e ricevuto amicizia. Ecco, si amici veri
ne ho, loro, forse, capiranno.
Non sono, e non sono
stato, però così onesto, né così buono e neppure dotato di grande morale. Sono
un uomo, traditore ed anche un po’ ladro. Menefreghista? Sì, anche questo, ma
tutto in equilibrio con ciò che mi ha circondato.
Sono pronto, unica
concessione il sacchetto con la magnesite, bianca e un po’ magica polvere;
pucciarci dentro le mani è anche un gran bel gesto, infonde sicurezza; eppure
non mi sento come l’angelo biondo e seminudo, scalzo e slegato che tutti
abbiamo visto danzare sulle grigie rocce del Verdon. In primo luogo non sono
biondo, almeno non più, e i miei capelli son corti, quasi rasi. Neanche ho i
suoi muscoli, e la mia, di Via è ben più facile. Ha importanza tutto ciò?
Sarò allora uno dei
parassiti dello scritto di Ugo Manera, oppure uno dei Falliti dello testo più
conosciuto di Gian Piero Motti anch’egli morto suicida. Sì, di sicuro, oggi,
qualcosa mi legherà in qualche modo a lui.
Anche se per diverse
motivazioni e modalità d’uso, io, d’altronde, nella mia lucidità, motivazioni
precise non ne ho. Ma lui si, ne ebbe? Cambia forse qualcosa? Quello che conta
è il dopo, è chi rimane. Credo che sarà proprio questo pensiero che alla fine
della parete, alla fine della scalata, rappresenterà l’ultima difficoltà, il
vero tratto chiave.
Salgo, e come al
solito tentenno nei primi metri, devo acquisire sicurezza.
Cinquanta metri e sono
alla prima sosta che, ovviamente, non ha, per me ora, significato alcuno, ne
approfitto per raccogliere pensieri e dubbi, dubbi? Poi faccio pulizia, li
lascio al vento, la mia mente è libera, adesso. La cengia è comoda, una
sigaretta, mi siedo a gustarmela.
La mia Via prosegue
più a sinistra con una placca delicata, tratto chiave della salita…per ora. Lei
attende il mio passaggio, è una splendida lavagna grigia ed io la disegnerò con
la magnesite e il gesto, lieve, preciso.
Ecco uno dei piaceri
dello salire soli e slegati: cosa e quanto conta la distanza che ci separa
dall’ultimo ancoraggio? Solo il movimento, come unico aggregante alla sequenza
di piccoli appigli, importa. La mia mente è assolutamente sgombra, non esiste
più la paura, né l’apprensione di riuscire ad arrivare alla sosta successiva.
Esiste solo il
riuscire a proseguire senza soluzione di continuità, sino alla fine. Buffo dato
ciò che mi aspetta, la fine. Non c’è futuro vicino o lontano nelle solitarie,
e, volendo filosofeggiare, non esiste neanche il presente, è già passato nel
momento in cui il pensiero diventa gesto.
E’ bella la vita, qui,
ora. Come scrisse Jean Marc Boivin “…amo la vita, da morire..”.
Aggiungo io: per essa.
Seguo l’inutile linea
di placchette luccicanti lungo la placca che -stupenda fusione di antiche rughe,
nei, e piccoli seni da accarezzare- sta finendo. Proseguirò per i diedri e le
fessure finali.
Oggi non è neanche una
di quelle giornate in cui verrebbe da dire: è un bel giorno per morire; il
cielo si sta annuvolando, fa freddo, che schifo di settembre. Non ci bado
molto, se anche dovesse piovere da qui a poco io, sicuramente, non me ne
accorgerò, né vivrò la splendida sensazione che si ha quando, al ritorno da
un’ascensione, si entra in piola, magari in una giornata uggiosa come questa.
Vino e acciughe non
saranno nemmeno un ricordo.
La vetta è sempre più
vicina, che strana impressione.
Unico rammarico: a chi
lo racconto?
Tre sono i momenti più
belli dall’arrampicata, oltre al vissuto.
Togliersi le
scarpette, entrare in un locale e raccontarsi.
Sono qui, l’ultima
lama, l’ultima fessura, l’ultima corta placca.
Il sottile piacere che
si prova nel sentire i muscoli che rispondono infondendoti sicurezza, ti danno
potere, vita…già, vita…ne godo appieno.
Esco su facili rocce
raggiungendo la vetta, con il vento che aumenta e che ti fa sentire l’odore
della pioggia che arriva. Lontano s’intravvedono, tra le nuvole, colonna
d’acqua che si avvicinano.
Che stupido, mi son
messo il casco, gesto inutile, lo levo. Ho i capelli scompigliati, i pochi che
mi rimangono, sudati. Vi passo una mano sopra, ad accarezzarli; momento in cui
ti senti un po’ grande e un po’ più bello. Quante cose sciocche mi passano per
la mente.
E ora? Come procedo
ora? Guardo di sotto, la conoide di detriti così ripida a salire è ora, in
prospettiva, assolutamente piatta. Sono pronto.
Volare, ecco il dubbio
che svanisce. Io non volerò, io cadrò.
Il “volo”…già,
l’alpinista, lo scalatore è sempre stato un po’ megalomane, lui non cade, lui
vola. Palle! Quando la terra ti viene incontro, così velocemente stai solo
cadendo. Immagini della tua vita che ti scorrono davanti; no, grazie,
preferisco queste: sono inedite.
Questo non cambierà le
sensazioni che vivrò, -sembra un gioco di parole- cambia però il sogno; per
anni ho sognato il “volo” e oggi che son qui, pronto, scopro questo pensiero.
Non ho tentennamenti
comunque, chissà cosa penseranno gli altri e perché me lo domando.
Io sono qui, che
scrivo, ad un passo dal vuoto, ancestrale paura dell’uomo, e pronto ad
affrontarlo. Ecco, chissà se queste e le prossime immagini rimarranno impresse,
come dicono, nelle retine, e se anche fosse?
Vado! Ora! Pensiero ed
azione.
Quanti secondi per
coprire lo spazio che mi separa dalla pietraia?
Un salto…esito troppo,
come una scena al rallentatore sporgo una gamba nel vuoto, ruoto sull’altra, su
me stesso.
Mi fermo.
Rido di una risata che
non è schizofrenia, è gioia.
Ora vi aspetterete
qualcosa del tipo -…è tornato il sole, la
sua luce mi pervade l’anima, comprendo ora che devo vivere, tornare a casa…-.
Niente di tutto ciò.
Sta iniziando a
piovere, ed io, semplicemente, voglio bagnarmi.
Richiudo il sacchetto
della magnesite e cerco il casco, ora si che è utile, non mi va di bagnarmi gli
occhiali.
Le scarpe, accidenti! Quelle
le ho lasciate all’attacco, non mi sarebbero dovute servire.
Inizio a scendere
imprecando per la roccia scivolosa. Scendo per l’altro versante disarrampicando
tra cenge e canalini.
Di fronte a me si
lasciano intravvedere, in lontananza, la catena dell’Oronaye e a Nord la sagoma
del Monviso, ancora al sole. Da lassù si che sarebbe bello…volare, ma è questa
la parete che amo di più.
Ho in essa il ricordo,
indelebile, di una giornata che ha segnato il mio presente. Piovve anche quella
volta, e quello che ne conseguì ha lasciato tracce, ancora evidenti, nel corpo
e nell’anima di una persona smarrita.”
“So che ti ho amato
da quando ho memoria
di te,
qui,
nel luogo dove l’amore
è azione,
è coraggio,
non semplice parola…”
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